Il Graal a Guardiagrele?

Il volume che ho adottato come libro di testo per gli allievi del secondo anno del Corso di Restauro dei dipinti all’Accademia di Belle Arti di Firenze, si intitola: L’ancona dei Cappuccini di Guardiagrele e il suo restauro. Raccolta di notizie storiche, tecniche e metodologiche. Si tratta della descrizione accurata di un complesso lavoro di restauro, con rintelatura, condotto sopra un dipinto ad olio su tela di grande formato (3,68 x 2,45 m) installato in una imponente cornice monumentale. A quanto pare questo libro, a distanza di molti anni, verrà ricordato soprattutto (o solo) per una nota storica sul Graal.
È il primo libro che ho scritto, nel lontano 1998, che è stato molto utile ai fini dell’ottimo piazzamento nella classifica del concorso a cattedre nazionale.
Forse qualcuno dei presenti alla presentazione ufficiale tenuta nel Convento dei Cappuccini ricorderà che mi beccai da uno dei due oratori ufficiali, il prof. Mario Palmerio – che per altro lodò molto, puntualmente, tutto il mio lavoro – l’appellativo scherzoso di… “Indiana Jones”.


Ciò accadde perché, tra le note, avevo osato accennare alla possibilità che l’origine del nome della città: “Guardiagrele”, ovvero “Guardia di Grele” cioè “Grele”, potesse essere messa in relazione con il “santo” Graal.

Questa ipotesi non era inedita (il primato va attribuito agli antichi storici locali) perché, stando a quanto mi ha riferito il Conservatore del Museo del Duomo, negli anni ’80 del Novecento, era già stata rilanciata in una trasmissione radiofonica da un famoso esperto di Storia contemporanea, che in seguito, probabilmente, si pentì di averlo fatto giacché non volle accettare di essere intervistato ancora sullo stesso argomento. Inoltre, questo tema “scottante” e complesso è stato ripreso anni dopo l’uscita del mio libro da altri autori televisivi che si occupavano specialmente di argomenti storico artistici e non… purché sensazionali.

Tornando al fatto mio; in verità anche l’altro amico, cattedratico e presentatore ufficiale del libro, il compianto prof. Damiano Venanzio Fucinese (titolare della Cattedra di Storia dell’Architettura presso l’Università “Gabriele D’annunzio”) dopo qualche tempo, mi manifestò privatamente la sua perplessità al riguardo, citandomi l’insegnamento che gli era stato impartito, negli anni Cinquanta del Novecento, da un suo antico professore – di cui non ricordo il nome – che disse, a lui e ai suoi compagni universitari, testualmente: «Se proprio dovete, cioè se siete costretti, per forza, ad avventurarvi nel “fare” l’etimologia di qualcosa e specialmente di una città… fatelo in cinese!».
Naturalmente l’antico professore parlava quando di Cinesi in Italia ce ne saranno stati quattro o cinque in tutto e comunque veramente pochissimi rispetto alla moltitudine incalcolabile di oggi. Volendo dire, con questo, che nessuno avrebbe dovuto conoscere quella lingua, che allora era considerata dai più, sconosciuta, incomprensibile e remota, in modo da evitare che qualcuno potesse avanzare obiezioni ed eventualmente contestare quanto affermato.
Infatti, per non rischiare di inciampare facilmente in un campo così difficile bisogna essere ottimi conoscitori di tutte le lingue, dell’onomasiologia (la parte della Linguistica che si occupa delle variazioni lessicali di una stessa nozione tra una lingua e l’altra), della Storia e delle tradizioni antiche, ecc. Tanto più agli scrittori e agli eruditi “locali” (io sono nato a Guardiagrele) è vietato severamente avventurarsi nel loro ambito cittadino perché sono facilmente accusabili di campanilismo giacché, purtroppo, nei secoli scorsi, ci sono stati casi famigerati bastanti a screditare agli occhi del mondo il lavoro serio di tutti gli altri studiosi “locali”, passati e futuri!
In quella occasione (ero molto emozionato) io non ho ribattuto al Professore (che allora era l’Assessore alla Cultura e che in seguito diventò più volte sindaco) perché non mi sembrava il caso di contraddire chi poco prima mi aveva largamente elogiato. Del resto sono un restauratore, non uno storico di professione, e quello che nel mio libro ho aggiunto alla ricerca e alla conoscenza storica e a ciò che riguarda l’ambiente culturale che ha prodotto il dipinto oggetto del mio restauro, allora era già abbastanza. Nel frattempo altri “studiosi locali” sono andati avanti, specialmente riguardo al reperimento ed all’analisi puntigliosa delle fonti storiche originali superstiti (ed alla demolizione delle tesi e delle ipotesi non documentabili).

Ma perché mi sono avventurato in una tale, rischiosissima impresa? Ecco qua.

Il primo motivo è il seguente.
Nel Catalogus baronum, che è una autorevole fonte storica antica, cioè il registro delle signorie fondiarie dell’Italia meridionale, redatto tra il 1166-1189, è descritta la partecipazione di due cavalieri guardiesi “cum servientes”, con scudieri ed inservienti, alla Prima Crociata e questo è da considerarsi come un dato storico sicuro, certo, inoppugnabile. Inoltre, nell’insieme dello stemma araldico cittadino, oltre al bambino che impugna un’esotica palma, è presente anche un leone rampante che allude anch’esso (tra l’altro) alla fauna della Terra Santa.
Il secondo motivo era costituito dal ritrovamento di un documento inedito, che ho pubblicato interamente nel libro in oggetto, appartenente al carteggio della marchesa Lucrezia D’Ugni, guardiese, andata in sposa nel 1650 ad un maceratese, relativo ad una Descrizione antica della Guardia e dei suoi beni (scritta prima delle falsificazioni settecentesche del P. Colagreco). Nella lista compare, tra altre reliquie di incredibile o molto dubbia originalità, il Sangue miracoloso del Signore.
Il terzo motivo era costituito dall’esame iconologico dell’altare più antico ancora presente a Guardiagrele, quello medievale, che oggi è collocato a destra, vicino all’altar maggiore, spostato nella chiesa superiore di Santa Maria Maggiore.
La parte anteriore presenta uno stemma araldico, dov’è raffigurato il calice eucaristico che è stato appositamente diviso in due in senso verticale, e le cui parti sono sorrette simmetricamente da due angeli. A mio parere l’artista che pensò quella specifica trovata di dividere in due il santo calice voleva dire agli osservatori che quello vero stava, o poteva stare un tempo, esposto dietro quella grata, dentro l’altare.
Quarto motivo. Vi era un altro enorme elemento iconografico a Guardiagrele con lo stesso soggetto, il “santo” calice, che si trovava in un grande rilevo ligneo, ovale, scolpito a rilievo sopra un’aquila bicipite (che è lo stemma dell’imperatore Ladislao di Durazzo). Originariamente stava attaccato al centro del soffitto nella cappella del SS. Sacramento, facente parte della chiesa collegiata di Santa Maria Maggiore, nel salone oggi adibito a Biblioteca comunale.
Quinto motivo. A Guardiagrele, che, date le sue oggettive caratteristiche orografiche era un formidabile, inespugnato (fino al 1799) avamposto fortificato appartenuto per molti anni alla famiglia Orsini (la più cospicua tra le famiglie nobili d’Italia), c’è ancora la Via dei Cavalieri, nella parte alta, dentro il ristretto perimetro della prima cerchia di mura, quella più antica.

Questi sono alcuni motivi contenuti nel libro: L’ancona dei Cappuccini di Guardiagrele e il suo restauro. Raccolta di notizie storiche, tecniche e metodologiche.
Ma c’è dell’altro; ad es. per citare un altro argomento, di tipo toponomastico (relativo al nome dei luoghi), (sesto motivo) devo citare la Valle Buglione cioè la Tebaide d’Occidente che ebbe inizio a partire dai primi secoli del cristianesimo e raggiunse il massimo dello splendore al tempo di Celestino V. La Valle è situata proprio nella Maiella, a poche miglia da Guardiagrele, nella parte più alta, a sud, del Vallone di Santo Spirito, dove venne Goffredo di Buglione, a reclutare – contando sull’aiuto, influente, degli anacoreti lì presenti –, i volontari da arruolare alla Prima crociata, e questo accadde, appunto, nella “Valle Buglione”, che ancora oggi è riportata così, a ricordo di quell’evento, nella toponomastica ufficiale dell’Istituto Geografico Militare.
Il settimo motivo, di tipo onomastico, è fornito, a mio avviso, dal cognome di una illustre ed antica famiglia ancora presente a Guardiagrele, cui appartiene proprio uno dei presentatori ufficiali del mio libro, che potrebbe essere un discendente diretto degli antichi “palmieri” cioè di coloro che essendo andati in pellegrinaggio e/oppure a “guadagnarsi la nobiltà” come cavalieri liberatori del Santo Sepolcro a Gerusalemme, tornavano in patria con una palma simbolo del martirio e della Fede provata a rischio della vita.
Ho ripreso questo tema e l’ho parzialmente esposto, nel 2010, in nota (11 a pag. 416) del libro intitolato: I buoni colori di una volta.

Ma andiamo al centro del discorso.
Per i pochi che non lo sapessero il Graal è il recipiente nel quale è stato trasformato (tecnicamente i liturgisti dicono “transustanziato”) per la prima volta nella storia dell’umanità, il vino in sangue dal e del “nostro” Signore Gesù Cristo. Secondo altra versione si tratterebbe del calice nel quale sarebbe stato raccolto il sangue di Gesù durante la deposizione dalla croce. Secondo altri autori ancora, potrebbe trattarsi di due contenitori diversi (per diametro e forma) oppure coincidenti con lo stesso oggetto utilizzato nelle due medesime occasioni.
L’Enciclopedia Treccani on line alla voce dice:
«Gral, santo. Nome (dal lat. mediev. gradalis «vaso, recipiente», da cui il fr. Graal) dato in un ciclo leggendario medievale al calice o piatto usato da Gesù nell’Ultima Cena o al recipiente in cui si conservava il suo sangue. La leggenda del G., formata da una fusione di elementi derivati dal Vangelo apocrifo di Nicodemo e da scritti affini che raccontavano la storia di Giuseppe d’Arimatea, e di altri appartenenti a leggende celtiche, narra di un eroe puro (Parzival, Galaad) che riesce a ritrovare il santo G. perduto, fonte di salvezza e benefici. Le elaborazioni poetiche della leggenda, di Robert de Boron, Chrétien de Troyes e Wolfram von Eschenbach, risalgono al 12°e 13° secolo. Dal poema di Wolfram trasse ispirazione R. Wagner per il suo Parsifal».
In passato sono state proposte molte teorie sull’esatta definizione, identificazione e relativa ubicazione del contenitore sacro (e ogni tanto ne escono di nuove). Ciò è dovuto anche alla vasta diffusione del tema poetico che nel Medioevo ebbe la Leggenda del santo Graal.
Per quanto riguarda il suo complesso, profondo e variegato significato, nel Dizionario dei Simboli di J. Chevalier e A. Gheerbrandt, troviamo: «[…] Albert Beguin ne ha riassunto l’essenziale: “Il Graal rappresenta sostanzialmente il Cristo morto per gli uomini, il vaso della Santa Cena (cioè la grazia divina accordata dal Cristo ai discepoli), e infine il calice della messa contenente il sangue reale del Salvatore. La tavola su cui è posto il vaso è quindi, secondo questi tre piani, la pietra del Santo Sepolcro, la tavola dei Dodici Apostoli, e infine l’altare su cui si celebra il sacrificio quotidiano. Queste tre realtà – la Crocifissione, la Cena, l’Eucarestia – sono inseparabili e la cerimonia del Graal è la loro rivelazione, consentendo nella comunione la conoscenza della persona del Cristo e la partecipazione al suo sacrificio salvatore”».

Una definizione abbastanza accurata dei vari aspetti, con riassunto delle principali vicende storiche relative ai contenitori che sono stati stimati (in antitesi l’uno contro gli altri), poter essere “quello vero”, si trova nel libro: Il Giardino del Cristo ferito di Louis Charbonneau-Lassay. Da questo testo vi sottopongo i tre casi che sono in cima alle classifiche.
«Alcuni credono che sia quello d’argento che nell’anno 640 il vescovo gallo-franco Arculfo vide a Gerusalemme in una cappella tra la basilica del Golgotha ed il Martyrium.
1) “Questo calice d’argento ha la capacità di un sestario gallico. È munito di due anse, una per ciascun lato”. Il sestario gallico equivaleva a sette litri e quarantaquattro centilitri [mi sembrano un po’ troppi per dodici (Giuda era uscito), santi e morigerati Apostoli. Continua Charbonneau- Lassay, che a quanto pare non ci crede neanche lui]. Notiamo di sfuggita che la capacità di questo calice e la sua forma di vaso a due anse laterali dovevano accostarlo molto ai grandi “calici ministeriali” di cui ci si serviva durante i primi secoli cristiani per distribuire l’Eucaristia alle folle. […] Il vaso in oggetto non si trovava più a Gerusalemme quando i Crociati conquistarono la città.»
2) In Spagna sono convinti e credono fermamente che il Graal sia quello custodito nella cattedrale di Valencia. Esso è composto da una antica coppa potoria originale di epoca romana in pietra d’agata cornalina orientale (9,5 cm di diametro e 7 cm di altezza), scavata [insufficiente per i Dodici!] e adattata successivamente sopra un prezioso piedistallo di oreficeria medievale.
3) Altri pensano che il vero Graal sia il Sacro Catino in vetro verde, custodito nella cattedrale di San Lorenzo a Genova, che ha un’incredibile storia perché sarebbe stato, secondo autori francesi (v. Rohault de Fleury), un dono della regina di Saba a re Salomone, passato di re in re fino ad Erode e che “a causa di un malinteso si trovasse nel Cenacolo, ove Gesù, trovandolo adatto ai suoi scopi, se ne era servito”.
«A causa della sua forma, i Genovesi designarono il vaso con il nome di “Sacro Catino”. Si tratta di una vasca in materiale verde e traslucido, che essi credettero fosse smeraldo; è ottagonale, senza piedistallo, e munita di due piccole anse della stessa materia; il suo diametro è di 32,5 centimetri e la sua capacità di circa tre litri. […] Nel 1805 Napoleone, dopo che ebbe assunto il titolo di re d’Italia, ordinò che il Sacro Catino fosse portato a Parigi. […] Restituito alla città di Genova nel 1816, il Sacro Catino fu rotto accidentalmente nel corso di un viaggio; dopo essere stato restaurato, ha ripreso il suo posto nella nicchia nella chiesa di San Lorenzo».



Come ulteriore motivo giustificativo (probabilmente l’ultimo) che conforta la mia ipotesi di cui sopra, vi dirò che a Guardiagrele è esposto questo antico rilievo, scolpito in pietra della Maiella, che raffigura due cavalieri affrontati con spade sguainate e scudi crociati, disposti simmetricamente con al centro: in alto il sacro calice e in basso un cartiglio recante la scritta Guardia Grelis. Reperito in prossimità dell’antico Convento delle Clarisse è attaccato sul muro di casa ed appartiene al sig. Rocco Di Pretoro, gli avi del quale lo hanno tenuto in casa da tempo immemorabile.
Circa venti anni fa è stato collocato sulla parete esterna della casa dove attualmente può essere visto da tutti coloro che dal corso si recano alla Villa Comunale.